Se parliamo di jazz, ho la presunzione di definirmi un appassionato vero. Esperto no, servono un'altra cultura e un'altra preparazione, anche in termini di teoria della musica, ma appassionato sì (spero di essermi meritato il titolo che di solito spetta a chi all'apparenza sa, ma nella sostanza non sa).
Ecco, da un appassionato beccatevi questa: uno fra i dischi jazz più incredibili, e anzi spaziali di tutti i tempi non arriva dagli Stati Uniti. Badate che stiamo parlando di un'opera somma, da catalogarsi dopo pochi ascolti fra le cose in grado di cambiarti la giornata, e anzi la vita intera: quindi, prima di mettevi a ridere, abbiate l'accortezza di dedicarmi due minuti.
Il disco in questione, quello che può rovesciarti l'esistenza, arriva dalla Polonia. E la mente che si nasconde dietro l'ambizioso progetto è un sommo compositore caro anche a Roman Polański, che ha beneficiato dalle sua creatività per diverse colonne sonore: parlo di Krysztof Komeda.
Arrivo al dunque: “Astigmatic” di Krzysztof Komeda, genio delle sette note scomparso prematuramente nel 1969 (a 38 anni non ancora compiuti), è un disco in grado di rovesciarti addosso all'anima un'energia inusitata, degna delle primissime performance di tutta la storia del jazz (siamo delle parti del Mingus e del Coltrane migliori, per intenderci). Di più, “Astigmatic” è un disco che rompe la tua anima in due pezzi, e poi la calpesta finché non restano solo macerie e brandelli sparsi: il classico disco da mettere in loop a tutti coloro che ritengono il jazz una musica tecnicamente interessante, ma poco emozionante (ah ah).
Al di là delle peculiarità formali, su cui avrò dà modo di intrattenermi a breve, il capolavoro del polacco è un'opera straordinaria perché dotata, prima di ogni altra cosa, di un senso del drammatico senza precedenti.
E' uno di quei rari casi in cui ogni nota, ogni fuga, ogni slancio che sfuma in un momento di calma incandescente diventa potente metafora dell'esistenza. “Astigmatic”, per dirla con qualche critico serio, è un disco importante, ma non esigente: anche se non si è particolarmente affini al genere, verrà abbastanza naturale entrare in sintonia con le complesse (ma naturali) sfumature emotive del suo impasto sonoro. Verrà naturale innamorarsi, in sostanza.
La storia di Komeda merita qualche cenno: Kryzstof, in realtà, di cognome fa Trzicinski, ma dato che il regime sovietico non vede di buon occhio le musiche libertine che arrivano da oltreoceano, è costretto a scegliersi un nome d'arte che possa mascherarne l'identità.
Non è il solo: la dittatura polacca mette al bando il jazz, ed è allora curioso notare come la musica che in America serve per rampognare le storture e le costruzioni di un razzismo ancora vivo e vegeto, nell'Europa dell'est sia invece una radicale forma di resistenza culturale opposta a un regime di segno completamente diverso.
Komeda, che suona il piano, si forma nelle jam sessions clandestine della Polonia “indie” e, passo dopo passo, mostrando una velocità prodigiosa anche in termini di pensiero musicale, diventa un gigante della musica.
A metà anni '60 Kryzstof assembla un quintetto eccezionale: al sax alto scova il talento immaginifico di Zbigniew Namysłowski, al tempo venticinquenne o giù di lì; alla tromba un altro fuoriclasse destinato a scrivere pagine memorabili su tutti i fronti, Tomasz Stańko, ancor più giovane e se possibie ancor più talentuoso. Il gruppo è una specie di dream team paneuropeo, in quanto allinea anche il batterista Rune Carlsson e il bassista tedesco Günter Lenz, il “vecchio” della banda, con i suoi ventisette anni.
Komeda è la mente e il regista (un po' il Kazimierz Deyna della situazione, per restare in Polonia, parlando però di calcio), e con la suite che regala il titolo all'album allestisce uno fra i brani più febbrili dell'intera storia del jazz, riultato tanto più impressionante se si pensa all'età verdissima dei protagonisti.
Dopo la melodia sfibrata e dal sapore balcanico della tromba, prende corpo un crescendo "modale" di proporzioni ancestrali: la batteria pulsa nervosa e a tratti rockeggiante; il piano, con le sue prolungate linee di fuga (sempre fedeli agli schemi modali), è irrequieto e si cala nel ruolo di vero e proprio direttore d'orchestra, incaricato di guidare il gruppo anche in termini di coesione emotiva; la tromba, invece, assume il compito di disegnare trame cariche di colori aspri, perse dentro un'angoscia esistenziale cristallina, celeste.
A marcare la differenza, qui, è però anche il tono delle melodie, radicato nella tradizione della musica dell'Europa orientale, il che permette di qualificare “Astigmatic” come capostipite dei capolavori che segnano la strada europea alla musica afroamericana. Il sassofono contralto segue con un'intereptazione altrettanto implorante, e forse ancor più contorta, capace quasi di tradurre in chiave lirica mitteleuropea il folle rumorismo di Ayler e di Coltrane. Il finale è da brivido: raccoglie il meglio di tutti i protagonisti in un crescendo parossistico e pulsante.
I sette minuti di “Kattorna” non valgono di meno: il geniale tema introduttivo, esposto dai due fiati all'unisono, si apre rapidamente in un'improvvisazione dal sapore post-bop, in cui il melodismo rimane un distillato di efficacia comunicativa. La musica si apre in campate ariose che consentono alle due voci di allestire un dialogo fitto e commovente, diretto e confessionale sino all'inverosimile: sembra quasi di vedere gli strani meccanismi neuronali dei vari musicisti tradursi in una successione ragionata di note.
I sedici minuti di “Svantetic” meriterebbero una descrizione decisamente approfondita, perché il loro tema in calando, percorso da solenni pause “angolari” (quasi Monkiane) e da frizioni interne sottili, è pathos insostenibile, o se vogliamo un altro pezzo di storia.
Evito però di dilungarmi oltre e mi limito a un sollecito: nobilitate un'oretta della vostra giornata con il genio polacco, se pensate che la musica sia un'esperienza, una questione centrale dell'esistenza.
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